RIFLESSIONE SEMISERIA SULLA COMUNICAZIONE

Negli ultimi tempi mi è capitato in più occasioni di provare a spiegare ad alcuni un concetto che ritenevo scontato, ma che evidentemente, forse giustamente, non lo è per chi vede la comunicazione come un’attività che esiste a prescindere, in quanto da lettore se ne fruisce il più delle volte in modo gratuito.

©Angelo Colombo

Partendo dal semplice assunto – e stavolta sfido chiunque a dimostrarmi il contrario – che produrre informazione e comunicazione costa a prescindere dal mezzo che si sceglie per farlo (incluso questo blog, dove c’è chi ha acquistato il dominio, lo spazio web, la piattaforma per il software, dedica ore del suo tempo per scrivere e condividere…), è ovvio che chi sceglie di affrontare questa professione o è ricco e lo può fare a fini filantropici, oppure, com’è per qualunque altro lavoro, ha come obiettivo trarne profitto, che non è una parolaccia.

Prendiamo il nostro settore, la nautica da diporto, conoscete forse qualcuno tra gli industriali, gli artigiani e i rivenditori che ogni mattina si alza sapendo che affronterà una giornata impegnativa con tutto ciò che comporta la gestione di un’impresa, che lo fa per la sola passione?

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Ora prendiamo l’etica, cui sono chiamati a rispondere i giornalisti in quanto operatori ai quali è demandato il compito d’informare in modo corretto e soprattutto veritiero il pubblico.  Il giornalista può anche essere e in molti casi lo è, editore, dunque, l’industriale coincide con chi materialmente realizza il prodotto, come avviene anche in molte aziende. Qualora non fosse editore, il giornalista è per l’azienda editrice un costo puro, perché anche noi abbiamo una vita e di qualcosa dobbiamo pur campare.

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Fissato questo concetto è chiaro che l’etica è qualcosa che per essere applicata senza vincoli di alcun tipo, che siano commerciali, politici, ideologici o altro, deve trovare soluzione al problema primario dell’informazione, ossia, assorbirne i costi in modo non condizionato. Cosa significa? La tanto vituperata legge sul finanziamento pubblico alla stampa nacque proprio per rispondere a quest’esigenza, ossia, svincolare l’informazione da  forme di sostentamento che in qualche modo l’avrebbero condizionata. A mio modesto avviso, questi fondi forse dovrebbero solo essere gestiti in modo più accorto, mi riferisco ovviamente a qualche recente scandalo in merito, ma come principio è sacrosanto per la stampa chiamata a garantire un’informazione indipendente sui macro-temi della società. Che poi ci si finanzi anche altro non toglie che il principio sia sano, del resto esiste anche un Comandamento che dice “non rubare” e un articolo del codice penale che condanna chi ruba, ma nonostante questi, c’è chi ruba. Il punto ora è questo: se c’è ancora chi crede che una testata possa mantenersi con ciò che ricava dal prezzo di copertina allora deve rivedere tutto ciò che sa sull’editoria e le sue dinamiche. La stampa costa, chi impagina costa, chi scrive costa, chi distribuisce costa, il tutto per una somma normalmente superiore ai ricavi delle vendite in edicola quando il tutto si giocava sul cartaceo, oggi, più di quanto vendite on line e cartacee siano comunque in grado di fare.

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In questo il web ha portato una ventata di libertà dell’informazione che, sempre a mio modesto avviso, può realmente fare la differenza con il passato, perchè il sistema di gestione delle pubblicità di Google svincola la casa editrice dal rapporto con gli inserzionisti e si basa unicamente sul risultato, sui numeri reali che il sito web ogni giorno registra in termini di lettori, visitatori, pagine visitate, permanenza e altri parametri da cui deriva la notorietà dunque la visbiilità dei messaggi pubblicitari. Naturalmente Google tiene conto anche del tipo d’informazione trattata da uno specifico sito, sul quale vuole/deve sparare le sue pubblicità, per esempio, un sito di nautica che parla solo di quello, avrà pubblicità di settore più quelle extrasettore selezionate da un algoritmo molto efficace che decide quali mostrare in funzione della fascia di età media dei visitatori, della geolocalizzazione della maggior parte dei contatti del sito, della fascia sociale media di appartenenza di chi lo segue, della frequenza con cui le diverse fasce di pubblico visitano il sito, insomma, dai dati raccolti ogni giorno su ogni singolo sito interessato da queste analisi, Google seleziona le inserzioni e le paga in funzione di parametri predeterminati, che dipendono dai numeri e dalla qualità di questi numeri che ogni sito riesce a generare. In questo se un’azienda vive solo on line e produce informazione trova una fonte di sostentamento efficace, perché con numeri di un certo tipo la redditività di un sito web è tutt’altro che bassa. Certo, bisogna mettere in conto la lunga fase di start-up, i costi di gestione, il personale, la presenza alle manifestazioni di settore se parliamo di un media che segue un ambito industriale, i costi di viaggio del personale chiamato a presenziare a eventi e occasioni per raccogliere informazioni e dati, ma, se ben gestito dopo la fase di start-up un sito efficace nei numeri può contare su una “revenue” sicuramente interessante. Il problema è che rendere un sito così efficace per la pubblicità on line significa conquistare il pubblico in termini di fedeltà, il che non è un obiettivo facile da raggiungere, a meno che, ci si conquistano la fiducia e la visibilità a colpi di scoop o notizie in anteprima e magari qualche scandalo, se si è in grado di farlo senza farsi male. Insomma, un percorso in salita ma non impossibile, però la salita è lunga e richiede investimenti, quindi, non è alla portata di tutti, a meno che ripeto, si tratti di persone molto attive e in grado di gestire bene tanto le piattaforme social quanto le notizie “scottanti” per conquistare visibilità e fiducia del pubblico, quest’ultima ottenuta ovviamente solo con la diffusione di notizie verificabili e ritenute attendibili nel tempo.

Chi è del mestiere sa bene quanto sia complicato tutto questo, ma è anche consapevole che se si riuscisse ad azzerare i costi di produzione e a portare a casa un reddito decoroso solo grazie alla pubblicità di Google sul proprio portale d’informazione, allora potrebbe potersi permettere di assicurare sempre un’informazione scevra da qualsivoglia condizionamento. Ora i miei colleghi puristi, puritani, seri e più deontologicamente corretti di me sono saltati sulla sedia: “quando scrivo io sono scevro da qualsivoglia condizionamento, sempre”. …Davvero? Io li leggo tutti ogni mese i giornali del nostro settore, per ragioni di studio e per curiosità, ma leggo anche i quotidiani, i settimanali e talvolta qualche mensile, non tutti di carta confesso, anzi, la maggior parte digitali (costano meno e stanno tutti nel mio iPad), ma il contenuto non cambia. Non trovo castronerie, falsità, o cose macroscopicamente di parte (a parte alcuni media generalisti, ma qui mi voglio soffermare su quelli di settore, dunque, non menzionerò tutti quei media finanziati dalla politica), il punto è che per la maggior parte dei casi ciò che non trovo sono le aziende che non investono un euro in pubblicità, quelle che pur avendo prodotti interessanti non hanno realmente risorse da investire, oppure, sono talmente poco capaci dal punto di vista della gestione del marketing che ritengono la pubblicità in genere una cosa ormai superata. Altri peggio, spendono soldi per azioni curiose che fanno sapere alla casalinga di Vimercate che con soli 3.700.000 (+iva) se si sbriga riesce a portare a casa uno yacht che fino al mese prima ne costava quasi quattro. Efficace.

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Cosa voglio dire con questo? Semplicemente che produrre informazione costa e anche parecchio, dunque, pensare di avere il diritto a prescindere di essere presenti su un giornale come e quando si crede è un errore, lo è perché spesso è frutto di una contraddizione: “essere presente sul giornale non mi interessa” – (quando si tratta di esserci pubblicitariamente) – “ma essere presente sul giornale mi interessa molto” (quando si tratta di far vedere i propri prodotti, meglio se su un servizio di sei/otto pagine). Questa contraddizione innesca equivoci banali, pensare che per produrre un articolo che per essere fatto richiede che un giornalista, dunque un professionista sebbene a volte alcuni stentino a comprenderlo, percorra in treno o in auto o in aereo anche 400-500 km, passi una giornata dentro l’azienda per vedere cosa e come lo fanno, intervisti il titolare, un direttore e magari un altro elemento fondamentale della catena produttiva per permettere ai suoi lettori di avere un quadro il più possibile completo su cosa quell’azienda fa, bene, pensare che tutto questo, al quale si aggiungono ore di lavoro di quello stesso professionista per riordinare il materiale raccolto, dargli forma e scrivere il suo pezzo magari andandosi a cercare anche qualche elemento storico cui agganciarsi… pensare che tutto questo non costi è come pensare che le barche crescano sugli alberi e sia sufficiente annaffiarli con l’acqua di mare.

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Ritengo dunque necessario chiarire che non esiste il diritto alla visibilità e che alcuni editori, a spese loro e in nome dell’informazione intesa come missione sociale, dedicano dello spazio anche a chi non ha e non investirà mai un Euro sul loro giornale . Ora, da qui a pretendere che questo spazio sia almeno come quello di chi investe sul magazine in modo importante ce ne passa.  “Sebbene per un prodotto come il mio dovrebbe dedicare altro che quello”… – sembra una battuta, ma insieme a “dovreste pagarmi voi per farvi pubblicare questa barca!” vi assicuro che è solo parte del testo di “Storia dei media nel complesso mondo della nautica da diporto” (titolo di un libro mai scritto…per adesso almeno. n.d.r.)

Facciamo il punto, la comunicazione è un’attività che molti pensano di poter fare semplicemente perché scrivevano dei bei temi alle medie e per giunta, andavano anche in barca a vela d’estate. Questo almeno nel nostro ambito, poi magari ci sono quelli che andavano a scuola con il motorino facendo anche un paio d’impennate, che pensano di essere in grado di gestire la comunicazione nel mondo del motociclismo facendo anche meglio di quei pedanti professionisti che hanno frequentato l’università, hanno seguito corsi professionali, si sono sottoposti a un esame di Stato e continuano a seguire  gli aggiornamenti e magari, poveri, continuano anche a studiare per non perdere nulla dell’evoluzione della loro professione e del comparto nel quale operano.

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La nostra professione è profondamente cambiata negli ultimi dieci anni, sebbene ci fossero dei chiari segnali del cambiamento già a inizio anni 2000 quando il web cominciava a imporsi come fonte d’informazione, molti di noi non lo hanno colto o semplicemente hanno opposto resistenza. Va detto a onor del vero, che anche le aziende qui in Italia hanno cominciato molto tardi a credere nella comunicazione digitale, ma poi, è arrivato l’iPhone e tutto è cambiato, perché da quel giorno sono arrivati telefoni sempre più evoluti, collegamenti sempre più veloci, schermi sempre più visibili e da lì a leggere sul telefono quello che prima si leggeva solo sul computer è stato un passo breve, reso ancor più breve dall’arrivo dell’iPad. Non entro nel merito del cambiamento, perché se autorevoli università dove si fa ricerca specifica scrivono da oltre un decennio trattati molto complessi in merito, un motivo ci sarà. Quel che voglio dire è che da una parte ci sono le aziende che nella maggior parte dei casi solo di recente hanno cominciato a comprendere che la comunicazione è cambiata, così cominciano a criticare quei media che invece sono rimasti uguali a loro stessi. Dall’altra parte invece, ci sono  i media rimasti indietro nel passaggio di ciò che oggi è l’equilibrio tra on line e off line, poi, altri media che con i loro esperimenti stanno effettivamente determinando il cambiamento. Il modo di scrivere è cambiato perché è cambiato il modo di leggere, siamo passati dal magazine cartaceo che durava un mese sullo sgabello del bagno al flusso continuo di notizie che transitano on line sul medesimo argomento e che possiamo leggere sul piccolo schermo di un telefono, spesso fuori dal bagno. Nessuno di noi è più disposto a leggere pagine e pagine di un articolo dedicato a un argomento di nostro interesse, ma al contrario siamo tutti attratti dalle immagini e da testi snelli, densi. In fondo avendo tolto i magazine dagli sgabelli dei bagni, tanta carta non serve più, quindi, anche i giornali off line devono adeguarsi e assecondare il modo di leggere che abbiamo tutti acquisito.

La domanda ora è: produrre comunicazione on line vale meno?

La risposta è: “Niente affatto, perché rispetto alla carta beneficia di molte variabili a favore dell’oggetto di quella comunicazione che sono: persistenza, non dura un mese ma per sempre una volta pubblicata; velocità nella pubblicazione dal momento del manifestarsi dell’esigenza di comunicare di un’azienda; possibilità di tornare sull’argomento implementando l’articolo iniziale senza doverlo semplicemente richiamare alla memoria di chi ci legge con regolarità, per gli altri invece era un semplice “comprati l’arretrato se sei tanto curioso”; possibilità di rendere il tutto più accattivante con materiale multimediale come video, foto, audio che intrattengono e informano. Ci sono altri vantaggi connessi con la pubblicazione digitale di un articolo, per esempio la possibilità di condividerlo sulle piattaforme social raggiungendo quel pubblico che, sebbene appassionato, in passato non comprava mai riviste cartacee o lo faceva solo occasionalmente, poi ci sono vantaggi connessi con la possibilità di innescare relazioni con questo pubblico…ma qui entriamo già in argomenti che solo quelli che scrivevano bene i temi e andavano in barca a vela l’estate possono capire.

Produrre informazione digitale, gestirne i flussi, darle visibilità e soprattutto assicurare competenza in ciò che si scrive, quella competenza da cui deriva l’affidabilità della fonte e infine la fiducia del pubblico, non costa?

La risposta è: “Ca… certo che costa, e anche caro! l’unico costo che si abbatte è quello di carta e stampa, ma in compenso le ore di lavoro aumentano considerevolmente, come i viaggi, perché lo spazio dedicato alle notizie che vogliamo dare è potenzialmente infinito dunque, si cerca di non perdere nulla, poi ci sono sempre i saloni, le presentazioni, gli inviti dei cantieri e delle aziende della fornitura, i vari, le prove in mare”.

©Angelo Colombo

Costa e neanche poco. Ma quando si tratta di dare valore a un banner allora la percezione è che qualsiasi cifra si paghi è troppo. Perché? Perché i banner hanno parzialmente esaurito la loro funzione, ma ci sono altre mille forme di promozione pubblicitaria sul web. Ciò che si fatica a comprendere è che la forma pubblicitaria più efficace è oggi la pubblicazione di notizie e approfondimenti percepiti come affidabili ed emessi da fonti altrettanto affidabili. A questo punto rientra in gioco il nostro bravo ragazzo che scrive bene i temi ed esce in barca a vela  d’estate, è il suo momento! Oggi il vero valore aggiunto che fa la differenza nell’attività di promozione sono i contenuti, che a differenza del passato non sono più circondati di pubblicità per produrre gli effetti di marketing desiderati, ma sono essi stessi la prima leva motivazionale ad approfondire la conoscenza di quel prodotto specifico.

©Angelo Colombo

Naturalmente siamo nel mondo delle contraddizioni, quindi, io dico che oggi la comunicazione è fatta di testi snelli ma densi di contenuto e ti ho tenuto attaccato a questo schermo fin qui, che se mi hai seguito come minimo devo offrirti una visita oculistica. Ma è contraddizione anche pensare che oggi una pagina pubblicitaria, uno spot TV, un annuncio radiofonico da soli siano in grado di sostenere una campagna di marketing efficace. Il problema è che in molti ancora non hanno ben capito cosa sia una campagna di marketing, così, per tagliare corto ti propongono di essere loro complice in una campagna di marchetting, che è un’altra cosa. Quando dico che sono i testi la vera arma per chiamare all’azione il pubblico, non parlo dei testi di una volta, ma di quelli che oggi il pubblico si aspetta. Anche io quando leggo di biciclette o di moto cerco un certo linguaggio, non ciò che leggevo quando andavo a scuola con il motorino su una ruota sognando quei tre cilindri in più e il loro dolce suono tra le mie gambe. Oggi mi aspetto di leggere in dieci righe quanto basta per capire con precisione di cosa si tratta, se è di un tipo o di un altro, se ha potenza da vendere o si rivolge a un pubblico più tranquillo, se è per tutti o posso solo conoscerla per sognarci su, insomma, dieci righe, come ho fatto io qui, per dire cos’è, cosa fa, come lo fa, quanto mi costa. In quelle dieci righe ben strutturate c’è la spinta all’azione, la prima, quella che fa sentire il bisogno di saperne di più, e allora segue un testo altrettanto denso e snello in cui si scende nelle caratteristiche più dettagliate evidenziando cos’ha questo mezzo che gli altri finora non avevano. A questo punto, il processo di avvicinamento del pubblico al prodotto è ormai avviato, per tutto il resto…c’è proprio quello che uno spot pubblicitario efficace richiama alla vostra memoria.

Bene, in queste poche righe volevo semplicemente riassumere i seguenti punti:

  1. comunicare è una professione, lo si può fare in tanti modi ma oggi i confini sono tutti molto più sottili del passato, per questo chi comunica in genere deve studiare in modo costante le dinamiche in gioco;
  2. come tutte le professioni, si scelgono perché piacciono, si esercitano perché producano;
  3. una campagna di marketing di comunicazione richiede un attento lavoro di studio e di analisi continua degli strumenti disponibili e dei risultati, un’attività non tangibile e che spesso arricchisce il professionista che la esercita di esperienze che al cliente successivo gli torneranno utili, ma non per questo si può considerare già pagato;
  4. per pubblicare sul web i costi ci sono eccome, scrivere richiede tempo, impaginare richiede tempo, la piattaforma costa all’acquisto e al mantenimento nonché allo sviluppo, viaggiare costa, gli attrezzi del mestiere come computer, macchine fotografiche, registratori, telefoni, action cam etc. costano.
  5. illudersi di ottenere risultati di grande impatto con una campagna basata su un paio di uscite pubblicitarie a cavallo di un salone, trascurando l’importanza di ciò che sul web i potenziali clienti troveranno sui propri prodotti, significa non osservarsi quando cerchiamo informazioni su qualcosa, ossia, “googliamo”!
  6. i banner producono un invito all’azione troppo blando. In parte è vero, ma la loro funzione non è più quella, oggi è maggiormente quella di far accrescere presso il pubblico la confidenza con il brand, l’azione è postuma.
  7. I testi se scritti come il lettore medio si aspetta, pubblicati nel rispetto di come siamo oggi abituati a leggere e soprattutto a guardare, nei tempi e negli spazi ormai propri della vita sul web e sui social in particolare, sono la prima risorsa di comunicazione in grado di produrre l’effetto desiderato dalle aziende.
  8. noi comunicatori – parlo di quelli più bravi di me ovviamente – possiamo oggi operare in modo autonomo offrendo potenzialmente tanti media quanti sono gli esperti sul tema. Pensate a quanti bravi studenti di italiano che andavano a vela d’estate scrivono di barche sul web, un’infinità, io mi diverto a leggerne più di qualcuno, talvolta anche come firme di media ormai affermati. Allora la differenza cosa la fa? La competenza, quella reale, quella che permette a chi scrive di essere il primo a sapere di cosa sta parlando, sapendo quali domande fare a chi quel qualcosa lo ha creato, sapendo dove mettere il naso per verificarne la qualità, sapendo come tradurre in parole le sue sensazioni al timone, che non sono soggettive, ma devono essere il più possibile oggettive e solo la competenza permette di farlo. Un comunicatore professionista sa quando pubblicare per mettere in relazione quel pezzo con altri o con situazioni specifiche, valuta il contesto, il peso che quel pezzo deve avere senza mettere in campo la presunzione di aver scritto un pezzo alla Montanelli, che farà decine di migliaia di lettori in modo spontaneo “perché io so io e voi nun sete un …” come ebbe a dire il Marchese del Grillo. Il comunicatore professionista se è messo nelle condizioni di seguire una linea del tempo di un progetto di marketing sa come gestirla nel più efficace dei modi, studia continuamente gli effetti di ciò che fa, mentre il giornalista professionista coglie gli input e cerca di approfondire il più possibile per avere quello che altri forse si lasciano sfuggire e fa in modo che la sua comunicazione sia più efficace, quindi più letta, quindi un invito a tornare a leggere sul suo blog o sito anziché altrove. Un professionista a volte commette degli errori nei suoi testi, perché li vuole pubblicare entro tempi che non permettono una stesura molto ragionata e men che mai una sana rilettura, però, a differenza di altri, mentre preme il tasto “pubblica” sa già che deve partire con le correzioni e lo fa anche se questo farà male al SEO. Non riesce a vedere un testo che non gira come vorrebbe pubblicato a suo nome, quindi, lo corregge off line fino a quando non è soddisfatto e poi lo rispara corretto. Alcuni lo avranno trovato un po’ mal scritto il primo, ma la loro mente è pronta a sorvolare se hanno trovato quello che nessun altro aveva pubblicato, soprattutto se rileggendolo magari con un amico scopriranno che in realtà non era scritto poi così male, anzi, scorre e l’italiano è corretto, i refusi non ci sono…avrà sempre il dubbio che lo abbiate corretto e se pure ne avesse la certezza ora sa due cose: da voi trova testi affidabili e di prima mano, per giunta scritti da chi sa usare penna e calamaio;
  9. credo che il mondo della comunicazione sia rimasto simile a se stesso solo per chi è ancorato al passato, ma sono pochi per fortuna, perché anche chi verbalmente esprime amore per la carta e un vecchio stile giornalistico, s’informa su telefoni e tablet, dunque, l’aspetto comportamentale che è quello che conta, non coincide con quello verbalizzato e quando glielo fai notare ti guardano come dire: “e va beh, certo che le leggo sull’iPad, è troppo comodo, ma sullo sgabello del mio bagno una copia c’è sempre…”. In pratica contraddice se stesso, ne è consapevole ma è vittima delle sue stesse convinzioni, che non gli fanno accettare di aver ormai assimilato un nuovo modello comportamentale in linea con il tempo che vive. Quindi? Quindi…ora sarò sintetico: fate progetti di marketing, non chiedete singole marchetting che non servono a nulla, inserite la comunicazione in un progetto organico anche se avete un solo prodotto, partite dall’obiettivo industriale che può essere “ne voglio produrre e vendere 100.000”, oppure “ne voglio produrre e vendere 3 perché il valore aggiunto di ogni singolo prodotto fa campare bene tutti”. Ma se tutto questo non si ha la volontà di applicarlo e di rispettarlo nell’arco della vita del progetto che si è fatto, non ha senso neanche comunicare, perché o hai ragione quando dici che i tuoi prodotti si vendono da soli (…forse CocaCola potrebbe dirlo, eppure continua a comunicare e fare pubblicità…) o sei talmente lontano dalla realtà che è bene che il tuo avvicinamento sia graduale per evitarti shock. Se sei come il secondo caso non ti serve uno studio di marketing, allora mi chiedo perché hai letto fin qui? Tutto questo però, se pensi che non abbia un costo e non comprendi che sarà sicuramente più basso di quanto è in grado di produrre, allora non fa per te, continua come hai sempre fatto e chiedi pure la quotazione per una “marchetting”, del resto di “marchetting” si vive e non si muore come insegna la storia.

Concludo con un grazie sincero per aver letto sin qui le mie riflessioni sul tema, sperando che qualche evasione verbale abbia alleggerito la questione e reso la lettura un minimo più gradevole. Senza qualche punto del genere io per primo sentivo il bisogno di esclamare: “Sì va beh, però che palle!”.

Per farmi perdonare ho inserito anche un po’ di immagini dal mio archivio, spero abbiano contribuito a rendere più gradevole la lettura.

©Angelo Colombo

Se vorrai lasciare le tue riflessioni le leggerò con molto piacere, l’importante è che non siano sulle impennate con il motorino, sui temi delle medie e neanche sulle uscite della domenica d’estate con la deriva o la barca di papà…parliamo di comunicazione! Altrove magari parliamo pure di altro, ma da questo post mi piacerebbe solo innescare un dialogo costruttivo sulla comunicazione e la sua evoluzione, naturalmente io parlo sempre mettendo questo tema in relazione con il mondo della nautica da diporto perché è quello in cui opero, ma ritengo ci siano argomenti comuni a qualsivoglia settore industriale. Sebbene quello nautico ha delle specificità che invitano a scrivere il libro citato qualche riga più su.

Ciao,

Angelo

 

4 risposte a “RIFLESSIONE SEMISERIA SULLA COMUNICAZIONE”

  1. Caro Angelo, sarò brevissimo poiché mi sono appassionato alla lettura del tuo lucido e contemporaneo “trattato” sulla comunicazione.
    Condivido appieno le tue riflessioni. Ciò che posso rilevare senza vena polemica ma solo osservando in modo oggettivo la realtà è che la distrofia che si nota nel nostro mondo è causata principalmente da due fattori:
    Primo. La maggior parte delle aziende della nautica sono ancorate ancora a vecchi stilemi e non apprezzano nè valorizzano ancora i professionisti che cercano di indirizzarli nella direzione opportuna. Le stesse aziende non riconoscono e si rifiutano di comprendere di conseguenza l’enorme quantità di ore lavoro necessaria per una campagna di comunicazione efficace. Preferiscono campagne di marchetting a campagne di comunicazione credibili è più oggettive per i loro stessi prodotti.
    Secondo. Finché ci saranno colleghi che agevolano e promuovono campagne di marchetting assecondando i malsani principi di queste aziende, il valore di una comunicazione “vera” e di valore resterà sempre inespresso e sottovalutato.
    Un vecchio proverbio genovese recita: “… Chi rovina il porto è sempre il marinaio”.

    1. Caro Andrea, il tuo stoicismo nell’aver letto il mio sfogo fino in fondo e aver avuto ancora l’energia per aggiungere un commento mi commuove! Scherzi a parte, hai perfettamente ragione, direi che il proverbio genovese che citi non fa una piega.
      Bisognerebbe parlarne in modo più frequente tra noi “del mestiere” ritengo.

  2. Caro Angelo, il tuo articolo è veramente interessante e da molti spunti di riflessione, l’ho letto tutto di un fiato e concordo, come sai pienamente. Come tu ben sai io mi occupo di comunicazione visiva ma comunque i problemi sono gli stessi.

    Un saluto affettuoso

    Raymond Varraud

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